martedì 9 ottobre 2012



“Erio Silenziosi” La mia vita a Corleone
Il racconto di Angelo Jannone
Cosimo Forina
“Sono stato capitano a Corleone ed ho scritto un libro che racconta anche di quella esperienza. Sono rimasto colpito dalla sua frase “volevo riappropriarmi della mia vita”. Io non sono in servizio da anni e da tempo vorrei scrivere un libro sui “figli dei mafiosi” e sulle loro difficoltà di smarcarsi e di vivere una vita vera senza pregiudizi. Aggiungo, se mi permette, che lei dovrebbe comunque rinnegare non suo padre (io esprimo comprensione per i sentimenti familiari) ma dovrebbe rinnegare il fenomeno mafioso e ovviamente dovrebbe rinnegare anche le scelte di suo padre ed invitare gli altri a farlo”.
Questo uno dei passaggi che la Gazzetta pubblica in esclusiva della conversazione intercorsa su facebook tra Angelo Jannone, ex colonnello dei Ros, e Giuseppe Salvatore Riina. Jannone originario di Andria ha appena pubblicato “Eroi Silenziosi”, edito da Datanews, mentre Giuseppe Salvatore Riina si appresta, con la Aliberti, a pubblicare un suo libro, stessa casa editrice che sta per diffondere altro tomo "contro" il capitano Ultimo che arrestò Salvatore Riina.
Il nome e il volto di Angelo Jannone, che nel 2003 ha lasciato l’Arma, oggi libero professionista e saggista, è diventato ai più noto dopo che a parlarne è stato tanto il Corriere della Sera, che ha svelato attraverso l’articolo di Carlo Vulpio il contenuto del romanzo autobiografico di un ex carabiniere sulle vicende più scottanti della lotta al crimine organizzato, che per la partecipazione dello stesso Jannone alla trasmissione televisiva “Se stasera sono qui” de La7 andata in onda il 19 settembre (http://www.la7.it/sestaserasonoqui/pvideo-stream?id=594614). Le sue esternazioni nel monologo “Buoni e Cattivi” hanno riacceso il dibattito sulla visione dell’etica e della giustizia. Nel suo libro Jannone narra fatti veri, vissuti da investigatore. Lui non appartiene alla figure ospiti fisse dei media, professionisti dell’antimafia che siedono nei salotti televisivi a suon di lauti compensi. L’ex colonnello ha scelto il confronto con i cittadini continuando a vivere il suo quotidiano, portando come testimonianza la sua esperienza. Anche quando racconta l’operazione che portò all’arresto di numerosi narcotrafficanti dove da infiltrato rischiò la sua incolumità. Ma con vigore sostiene la correttezza nel loro operato di ufficiali come Giuseppe De Donno, Mauro Obinu e Sergio De Caprio (meglio noto come il «capitano Ultimo»), pietre miliari dei Ros (Raggruppamento operativo speciale dell'Arma) sorto dal vecchio Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ereditato dal colonnello Mario Mori. Quest’ultimo, come altri, costretto a difendersi perché accusato da chi appare presunto bugiardo e falsificatore di documenti, come Massimo Ciancimino (figlio del mafioso Vito Ciancimino). Un mondo all’incontrario quello della giustizia in Italia dove alcuni servitori dello Stato, non allineati, oggi siedono sui banchi degli imputati. Angelo Jannone lo sottolinea da chi appartiene a quell’Italia che non si è mai piegata e non ha mai aperto trattative con la mafia: “nell’era della comunicazione e dell’informazione, queste azioni vengono accompagnate da un’opera di ricerca di consenso sociale, attraverso convegni, associazioni, giornalisti e scrittori, per poter far apparire come “cattivi” coloro che vanno “colpiti”. Tra le sue preziose azioni la collaborazione nel 1989 dal suo comando di Corleone con Giovanni Falcone. Anche in quella inchiesta mafia-appalti poi stranamente e in tutta fretta archiviata a Ferragosto del ‘92 dopo la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio. A chi gli chiede il perché, come durante la trasmissione de La7, difende con passione Mori, Ganzer e altri ufficiali inquisiti, risponde: “si sono accentuati approcci ideologici al mestiere di magistrato. Per cui il procedimento penale viene interpretato come una clava con cui perseguire chi viene ritenuto al di fuori del proprio sistema di valori da parte di questi pezzi della magistratura”. Poi conclude: “Se difendo il Generale Mori, lo faccio perché il suo caso rappresenta il simbolo di un modo becero e sbagliato di fare giustizia. Il Generale Mori non mi ha mai dato nulla se non la sua stima di comandante. Quando è diventato direttore del Servizio Segreto non mi ha portato al suo seguito, eppure ci sarei andato volentieri. Quindi in comune abbiamo solo uno stesso modo di intendere l’impegno sociale del carabiniere o del poliziotto. Ma come difendo lui difenderei qualsiasi appartenente alle forze dell’ordine, compresi gli agenti di custodia a cui spesso sono garantiti meno diritti dei criminali veri detenuti. Lo difenderei se fosse coinvolto in un procedimento penale assurdo ed infondato, solo perché non ha scelto di vivere la vita al riparo da responsabilità”.

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